venerdì 14 dicembre 2012

Slave bracelets



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Ogni settimana, in tutto il Regno Unito, chiudono circa 50 pub

Allarme birra in Inghilterra: i pub sono a rischio chiusura a causa delle troppe tasse sulla bionda/rossa bevanda.



Pare proprio che una delle principali vittime della crisi economica in Gran Bretagna sia proprio la birra , simbolo per eccellenza del paese di Sua Maestà. Sono già 6000 i pub che hanno chiuso i battenti negli ultimi quattro anni e anche le vendite di birra al dettaglio non stanno certo meglio: pensate che sono crollate del 15%. Ma di chi è la colpa di tutto?Come sempre di un regime fiscale che penalizza le vendite e la ripresa economica: se non ci sono soldi, è inutile elevare le tasse a livelli stratosferici perché la gente se non ha liquidità non compra più. E arriva la recessione, persino chi non ha studiato economia può raggiungere una simile conclusione. Comunque sia, il fisco inglese pare che abbia introdotto una norma dal 2008, secondo la quale ogni anno il costo di una pinta di birra aumenta del 2%. Chissà perché queste norme non riguardano mai i salari!
Il risultato? Il prezzo della birra cresce molto più velocemente dell’inflazione, tanto che in quattro anni le tasse sulla bevanda alcolica sono aumentate del 40%. Uno sproposito. Ma ecco che per interrompere questa spirale disastrosa è intervenuta l’associazione Camra (Campaigning for real ale) che ha organizzato una petizione online chiamata ‘Save your pynt’, ovvero ‘Salva la tua pinta’, il cui scopo sarebbe quello di congelare gli aumenti delle tasse sulla birra.
Sono già 100.000 gli inglesi che hanno sottoscritto la petizione, che verrà poi presentata e discussa in Parlamento. Secondo i produttori di birra: ‘Su ogni pinta paghiamo 50 centesimi o più di tasse e altrettanti di Vat (l’Iva britannica ndr). In media bisogna aggiungere su ogni pinta una sterlina di imposte. Penso che questi siano costi inaccettabili per il consumatore’.

venerdì 7 dicembre 2012

Il declinio delle caratteristiche cabine telefoniche inglesi

Demolire le caratteristiche cabine telefoniche rosse? Gli inglesi non ci stanno

phone box
Iniziarono il loro inesorabile declino quando la gente installò il telefono fisso in casa, e l’avvento dei cellulari fu il colpo di grazia definitivo. Chi usa più le cabine del telefono? Ma gli inglesi ci sono affezionati perchè quelle classiche rosse sono un simbolo amato da tutti, e si sono lanciati alla ricerca di nuovi usi. Alcuni molto creativi!
Negli anni la cabina telefonica rossa è diventata un simbolo della vita inglese: è amata sia dai turisti che dai collezionisti di tutto il mondo.
La prima cabina telefonica rossa, la “K1″ (Kiosk 1) face la sua comparsa nel 1920. Nel 1924 l’Ufficio Postale organizzò un concorso per progettare un rimpiazzo. La gara fu vinta dal famoso architetto Sir Giles Gilbert Scott. Dopo qualche anno Sir Giles produsse altri modelli (il K3, K4 e K5), ma la versione più popolare, il K6, fu creata per il Giubileo d’argento del re Gerge V nel 1935 (nonostante non fu messa in produzione prima dell’anno seguente). Il modello K6 è la cabina rossa che tanto amiamo oggi. Purtroppo il K6 è diventata una specie in via di estinzione. Queste famose cabine telefoniche stanno scomparendo dalle strade e, siccome nessuno utilizza quelle rimaste, stanno perdendo valore. Il motivo è semplice: il telefono cellulare. Come spiega yusuf King della British Telecom, i telefoni a gettoni raggiunsero l’apice negli anni ‘80, ma hanno affrontato una crisi ancor più grande alla fine degli anni ‘90. La crisi ha conciso con la mania dei telefoni cellulari (nel 1999 in Gran Bretagna veniva venduto un cellulare ogni 4 secondi).
Durante gli ultimi 5 anni le telefonate effettuate dalle cabine telefoniche sono calate di più dell’80 per cento. 10 anni fa esistevano 92,000 telefoni a pagamento nel Regno Unito: oggi ce ne sono 51,500. Di queste soltanto 11,000 sono le tradizionali K6. La British Telecom si è resa conto che le persone adorano queste cabine telefoniche ed ho organizzato progetti molto origali per salvarle. La campagna “Adopt a kiosk”, lanciata nel 2008, è stato un gran successo. Una cabina telefonica può essere “adottata” per £1 e fino ad ora oltre 1,500 cabine sono state trasformate in piccole gallerie d’arte, centri d’informazione, biblioteche pubbliche, docce e persino toilet!
Il K6 rappresenta inoltre uno dei simboli di Londra e quest’estate almeno 80 cabine nella capitale hanno subito una trasformazione. Gli artisti coinvolti in questo progetto hanno incluso Sir Peter Blake (conosciuto maggiormente per la sua copertina fatta per l’album Sgt. Pepper dei Beatles), l’architetto Zaha Hadid e la modella e attrice Lily Cole. Questi artisti hanno preso parte al progetto per raccogliere fondi per Childline (un servizio di assistenza attivo 24 ore al giorno) che quest’anno festeggia i suoi 25 anni. I progetti includono un divano, una cabina a forma di Big Ben e una completamente rivestita di maglia. Le opere sono poi state poste lungo le strade di Londra per un mese e poi vendute all’asta da Sotheby.
Quando non vende le cabine telefoniche alle comunitù locali per £1, la British Telecom le vende ai compratori internazionali (ci sono collezionisti in Russia, Cina e Stati Uniti). Qui, però, il prezzo è leggermente differente: parte da £1,950.
british art
[Articolo tratto dal mensile SpeakUp, settembre 2012. Traduzione di Alessia Angeli]

Sister in spite

When Olivia de Havilland celebrated her 96th birthday last month in Paris, it was a public event worthy of Hollywood royalty — after all, she’s not only a two-time winner of the Best Actress Oscar, but stars in two of the most beloved classic-age movies, “Gone With the Wind’’ and “The Adventures of Robin Hood.’’
Conspicuously absent from the festivities was de Havilland’s estranged younger sister, Joan Fontaine, 94, another Best Actress winner who by all accounts is as robustly healthy as her sibling, and lives an ocean and a continent away in Carmel, Calif.
 


 
 
At 96, Olivia de Havilland (left) has refused to speak to her sister Joan Fontaine for more than 35 years.
The sisters have carried on Hollywood’s longest-running and most bitter feud, currently in its eighth decade — clashing over roles, Oscars and lovers, among other things. They have not spoken in 35 years.
Their rivalry goes back to their childhood in Japan, where Fontaine claims the 15-month-old de Havilland “was still too young to accept the arrival of a competitor for the affections of her parents and adoring staff.’’ Their British-born parents split in 1919, and their mother, Lillian, took them to California because of young Joan’s poor health.
After the family resettled near San Jose, Lillian married a department store owner named George Fontaine. Both sisters hated their stepfather and his authoritarian ways, but disliked each other even more. Olivia, the editor of a school magazine, published a mock will: “I bequeath to my sister the ability to win boys’ hearts, which she does not have at present.’’
When Joan was 15, in 1933, “Olivia threw me down on the poolside flagstone border, jumped on top of me and fractured my collarbone,’’ the younger sister recalled. “I regret I remember not one act of kindness all through my childhood.’’
Both elegant beauties, the sisters were soon professional stage actresses, with de Havilland quickly zooming to stardom when she was signed by Warner Bros. and teamed with Errol Flynn in “Captain Blood,’’ the first of their seven films together.
Fontaine, meanwhile, struggled in forgotten B-movies before landing bland romantic roles in more ambitious movies opposite stars like Fred Astaire and Cary Grant.
Fontaine was the first to marry — to one of de Havilland’s discarded boyfriends, actor Brian Aherne. The night before the wedding, de Havilland’s beau at the time, billionaire Howard Hughes, flirted with Fontaine — something her sister was none too happy about.
But that was nothing compared to their professional rivalry. When Fontaine tested for the role of Scarlett O’Hara in “Gone With the Wind,’’ producer David O. Selznick asked if she would be interested in playing the sweet Melanie Hamilton instead.
To her everlasting regret, Fontaine rejected what she considered an inferior role. Instead, she suggested her sister, who snagged an Oscar nomination, for Best Supporting Actress.
Fontaine beat out her sister for the much-sought lead in Alfred Hitchcock’s “Rebecca’’ and received her first Best Actress nod, though she ended up losing to Ginger Rogers.
But at the 1942 Oscars, the sisters went head to head for Best Actress — the first time this ever happened — de Havilland for “Hold Back the Dawn,’’ and Fontaine for another Hitchcock film, “Suspicion.’’ Fontaine won, and things got really bad.
Fontaine recalled: “I froze. I stared across the table, where Olivia was sitting. ‘Get up there!’ she whispered commandingly. All the animus we’d felt toward each other as children . . . all came rushing back in kaleidoscopic imagery . . . I felt Olivia would spring across the table and grab me by the hair.’’
Things got worse when de Havilland finally won her own Best Actress Oscar, in 1946, for “To Each His Own.’’ “After Olivia delivered her speech and entered the wings, I went over to congratulate her as I would have done to any winner,’’ Fontaine recalled. “She took one look at me, ignored my hand, clutched her Oscar and wheeled away.’’
Sharp-tongued Fontaine gave as good as she got. When de Havilland wed the frequently married novelist Marcus Goodrich in 1946, Fontaine quipped, “It’s too bad that Olivia’s husband has had so many wives and only one book.’’ The sisters didn’t speak for six years after that, not even when de Havilland won her second Oscar for 1949’s “The Heiress.”
“This cut me to the quick,’’ de Havilland told Hollywood columnist Hedda Hopper in a never-aired radio interview unearthed by film historian Robert Matzen for his book “Errol and Olivia.’’ “I never got any kind of apology, and wasn’t going to say, ‘How do you do?’ to her until I did get it,’’ she added.
There were occasional truces between the sisters. But after their mother died in February 1975, the estrangement became permanent.
“I was not invited to the memorial service,’’ Fontaine wrote in her scathing memoir, “No Bed of Roses’’ (in which she refers to herself in the third person). “Only after . . . threatening to call the press and give them the whole story was the service postponed and Joan and her daughter Debbie permitted to attend.’’
Occasionally they crossed paths at Oscar ceremonies. In 1978, they were seated at opposite ends of the stage. A decade later, Joan learned they were booked into adjacent rooms — and had hers changed. London’s Daily Mail asked de Haviland about a possible reconciliation. She gritted her teeth and said, “Better not.’’
Even the long-feuding Dean Martin and Jerry Lewis managed to patch things up before Martin’s death in 1995. But Matzen thinks a better comparison may be founding fathers John Adams and Thomas Jefferson, enemies who died within hours of each other on the 50th anniversary of the ratification of the Declaration of Independence.
“Like Adams and Jefferson,” he says, “Olivia and Joan’s rivalry will probably go on to death, with each determined to outlive the other.”

lunedì 3 dicembre 2012

Progetto di scuola autogestita

Sempre più famiglie in Italia si propongono di provvedere autonomamente alla formazione dei propri figli. L’ordinamento glielo consente: obbligatoria non è la scuola, ma un certo livello di formazione che deve essere garantito a tutti.
Homeschooling, scuole paterne, familiari, democratiche, autogestite... Fra queste tante di cui non possiamo condividere le motivazioni: spinte elitarie, vaghe aspirazioni misticheggianti e “new age”, desiderio di controllo e iperprotezione dei figli, per non parlare delle scuole dei “padroni”, come si chiamavano un tempo.
In mezzo però anche gruppi di genitori che, insoddisfatti della cultura e della struttura delle nostre istituzioni educative, a partire dal percorso di scolarizzazione dei figli decidono di porsi domande profonde e radicali e di provare a costruire piccole alternative alla scuola pubblica, improntate a un maggiore rispetto della persona, delle sue spinte vitali, dei suoi bisogni e di processi di formazione più liberi e liberatori. È il caso di “Educare sano” (www.educaresano.net), un progetto di scuola autogestito messo in piedi da un piccolissimo gruppo di famiglie fra Modena e Bologna. La scuola non esiste ancora. È un processo quello che la potrà fare nascere, come si ostina a dire Barbara Neri, l’ideatrice e l’animatrice di questo gruppo. Da quasi tre anni, si sta attivando per costituire un gruppo di persone, non per forza genitori, disposti a creare le condizioni per far nascere una scuoletta libera. Impresa non facile, dal momento che molti dei genitori che si incuriosiscono al progetto, a volte anche per le motivazioni poco nobili che dicevamo, quando si tratta di compiere il passo decisivo e scegliere per il figlio un’alternativa alla scuola pubblica desistono.
È così che, prima di partire con una scuola vera e propria, Educare sano ha iniziato a organizzare informalmente, tramite volantini e passaparola, giornate di gioco libero al parco, invitando le famiglie interessate a unirsi per sperimentare modi diversi di passare il tempo con i propri bambini. Educare sano non è ancora riuscito a mettere insieme un numero sufficiente di famiglie per partire con la scuola. “Quello che da settembre penso saremo in grado di fare, saranno piccole sperimentazioni pomeridiane, in cui metterci alla prova, attraverso cui conoscerci, condividere una formazione comune e, speriamo, contagiare chi nella scuola potrebbe portare il proprio figlio o anche chi vi potrebbe lavorare come maestro.”
Quali sono, chiediamo a Barbara, le motivazioni che dovrebbero muovere dei genitori per arrivare a concretizzare quelli che altrimenti rischiano di rimanere solo belle idee?È innegabilmente difficile per una famiglia dedicare così tante energie come il progetto di una scuola autogestita necessita, senza sapere i risultati a breve e a lungo termine. Questo credo sia uno dei nodi fondamentali. Le famiglie che si avvicinano a questa idea della scuola libera lo fanno principalmente pensando alle proprie necessità e ai propri figli. Ed è inevitabile e giusto che sia così. Io ho un bambino di sei anni e vorrei che la scuola partisse domani perché lui potesse iniziare subito un percorso di formazione elementare diverso. Poi però se si vuole fare uno scatto e arrivare a realizzare realmente una scuola libera e autogestita bisogna arrivare alla consapevolezza di volerla fare in ogni caso. La spinta iniziale è personale, ma lo scatto necessario è “politico” oltre che pedagogico. A questo punto del percorso, mi interessa andare avanti indipendentemente da quello che ne nascerà, e vedere cosa si crea da tutte le energie che siamo finora riusciti a mobilitare. E se un giorno riusciremo a far partire qualcosa allora spero di poterlo affiancare al percorso evolutivo e formativo di mio figlio.”
 

Popcorn

propercorn packs

Our four delicious flavours:

Fiery Worcester Sauce & Sun Dried Tomato, Sweet and Salty, Sour Cream and Chive, and Lightly Sea Salted. More exciting flavours to follow!
 
Our Story
Growing up, my father was a hopeless cook, yet made the greatest ever flavoured popcorn. Together we would use a stove-top popper with a wooden handle…churn the butterfly kernels…wait for that first magical pop…then another…then 10…then a snare drum crescendo, and finally the smell of freshly popped corn would fill the room. We spent hours experimenting with different toppings, always agonising over the extra pinch, drop or sprinkle that would make all the difference – our secret recipes.
Using these memories, recipes and
always testing everything first in that
same popper, I have created Propercorn.
Proper popcorn, just as it should be.
signature

domenica 2 dicembre 2012

Parlare da soli fa bene


E' una scena che capita a tutti di vedere: un uomo o una donna camminano per strada intrattenendo un'animata conversazione con se stessi. Il commento che facciamo di solito è sempre lo stesso: "Quello deve essere un po' matto". O perlomeno strano, strambo, stravagante. Parlare da soli, in effetti, viene comunemente ritenuto un segno di qualche instabilità mentale. Invece il primo studio scientifico condotto su questa diffusa abitudine rivela che è vero proprio il contrario: parlare da soli fa bene. Aiuta ad esercitare autocontrollo, riduce i comportamenti impulsivi, porta a sviluppare un migliore processo decisionale. Insomma, fa bene alla salute, mentale e fisica.
Psicologi della Toronto University sono giunti a questa conclusione, sfatando l'opinione dominante, al termine di una serie di test su volontari, ora pubblicati sulla rivista online Acta Psychologics. In alcuni di questi esercizi, ai volontari veniva impedito di parlare con se stessi, costringendoli a recitare ripetutamente sempre la stessa parola ad alta voce. Ebbene, coloro che potevano "parlare da soli" hanno regolarmente ottenuto risultati migliori nei test e dimostrato un generale beneficio rispetto ai volontari a cui veniva impedito di farlo.
Ci siamo resi conto che la gente agisca in modo più impulsivo quando non può usare la propria voce interiore e dunque in sostanza parlare con se stessa, mentre fa qualcosa", afferma il professor Michael Inzlicht, che ha diretto la ricerca. "Senza la possibilità di verbalizzare messaggi a se stessi, i volontari esaminati nei nostri test non erano in grado di esercitare lo stesso ammontare di autocontrollo". Si è sempre saputo che le persone conducono una sorta di dialogo interiore con se stessi, osserva lo studioso canadese, ma fino ad ora non era chiara l'importanza di tale funzione. "Mandiamo continuamente dei messaggi a noi stessi con l'intento di autoesaminarci, fare il punto su ciò che facciamo, ragionarci sopra", scrive Alexa Tullet, co-autrice dello studio
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"Parlando con noi stessi ci diciamo per esempio che dobbiamo continuare a correre anche se siamo stanchi mentre facciamo jogging, oppure di smettere di mangiare anche se avremmo voglia di un'altra fetta di torta, o di trattenerci dal perdere le staffe nel pieno di una discussione. Talvolta questi messaggi esistono solo a livello di pensieri, restando silenziosi, altre volte vengono esplicitati, in una sorta di conversazione ad alta voce con noi stessi. Il nostro esperimento dimostra che questo dialogo interiore è comunque utile e molto diffuso, anche se non sempre la gente si rende conto di farlo.".
Sicché, la prossima volta che vediamo qualcuno parlare da solo, non diciamo che è un po' matto. Anche perché la volta dopo potremmo essere noi a parlare da soli, senza accorgercene.