venerdì 9 novembre 2012

Che storia incredibile..

Mia figlia a un anno è già un'esiliata.

Storie vere: negli Emirati Arabi è illegale avere un figlio fuori dal matrimonio.

«Secono il Corano partorire fuori dal matrimonio è illegale. Se fossi rimasta negli Emirati Arabi avrei rischiato il sequestro della bambina».
Non mi sono mai sentita in colpa. Anzi, ho sempre pensato di aver agito nel migliore dei modi, nonostante tutto. Mio marito, Marco, era un cameraman freelance: filmava rally, motocross, corse ciclistiche. Per stargli accanto mi appassionai così tanto al rally che iniziai a cimentarmi in reportage televisivi, per hobby, senza lasciare il mio lavoro di commercialista. Nel 2006 andai da sola in Bolivia per realizzare un servizio in occasione del G4 Challenge. Ci saranno state un centinaio di persone tra organizzatori, giornalisti, concorrenti e piloti di supporto. Uno di questi era Thomas, che nella vita di tutti i giorni era un comandante di Airbus, ma che anni prima aveva partecipato come concorrente tedesco al Camel Trophy. Aveva la voce calda, sorrideva con gli occhi, mi piacque da subito. Ma non ci fu nulla tra noi, in quell'occasione. Solo nell'istante prima di partire lui mi confidò di sfuggita di avere una simpatia per me. Si era innescato un processo irreversibile: se provavo certe emozioni, era chiaro che il mio matrimonio non mi soddisfaceva. Mi ci vollero tre anni per decidere di separarmi. Marco non la prese bene per niente.
Nel 2009 un amico comune disse a Thomas che mi ero separata. Una sera finalmente lo vidi sotto al mio ufficio. «I had to take a look», disse ridendo. Mi ritrovai in poco più di un mese ad Abu Dhabi - dove lui vive e lavora anche oggi - innamorata e clandestina. Per ottenere il permesso di soggiorno è necessario trovarsi uno sponsor locale, quindi un datore di lavoro. L'alternativa è sposare qualcuno che ha la residenza negli Emirati ma io, separata legalmente da tre anni, sono tuttora in attesa del divorzio. La crisi del 2008 aveva buttato a terra il mercato e trovare un impiego non era facile. I primi tempi dovevo entrare e uscire dal paese ogni trenta giorni: il permesso da turista va rinnovato ogni mese. Mi dicevo che era il piccolo scotto da pagare per aver deciso di rivoluzionare la mia vita. All'inizio del 2011 una società inglese mi offrì un contratto di collaborazione e così ottenni il visto. Il lavoro mi piaceva tantissimo, il contesto era internazionale: proprio l'occasione che cercavo.
Come le sfortune così anche le fortune non vengono mai sole, pensai, perché scoprii di essere incinta, a 39 anni. Un regalo che non ci si può permettere di rispedire al mittente. Il problema è che secondo il diritto locale, basato sul Corano, è illegale partorire al di fuori del matrimonio, e Thomas e io non eravamo sposati. Pena l'arresto, il carcere, il sequestro legale del neonato. Durante i primi tre mesi di gravidanza, quando avevo bisogno di una visita di controllo, ero costretta a volare in Italia perché negli ospedali degli Emirati mi avrebbero richiesto il certificato di matrimonio. Quando ormai ero pronta per i vestiti prémaman, volai in Baviera e mi stabilii nel paesino di Thomas.
La sua compagnia aerea faceva spesso scalo a Monaco, quindi per noi sarebbe stato più facile vedersi là. Sbarcata in Europa tirai un sospiro di sollievo. Non sapevo che il peggio doveva ancora venire. È vero che nella Comunità europea oggi esiste la libertà di circolazione, ma per tutto il resto è cambiato poco da vent’anni a questa parte. Per avvalermi dell’assistenza sanitaria tedesca, per esempio, ho dovuto spostare la mia residenza in Germania. Soprattutto, qui, dal momento che il divorzio richiede tempi brevi e non esiste la separazione legale, la paternità viene automaticamente attribuita al marito. Detto in parole povere, il riconoscimento di paternità secondo il diritto tedesco - al quale sono sottoposta dal momento che risiedo in Germania - non tiene conto dei tempi biblici di quello italiano per ottenere il divorzio. Nell’"Europa unita” ci sono 27 paesi e 27 diritti della famiglia, anche se i divorzi tra coniugi di differente nazionalità sono già il 20% del totale. Negli ultimi mesi in parlamento si sta discutendo un testo unico sul “divorzio breve” (solo per le procedure di primo grado ora in Italia occorrono in media 634 giorni, più che in tutti gli altri paesi europei), che permetta di divorziare in un anno. Non mi pare una proposta estremista, come potrebbe apparire imitare per esempio l’Olanda, dove bastano pochi giorni, o il Regno Unito, che non prevede neppure la presenza di un avvocato. E nonostante ciò, appena il divorzio breve, dopo nove anni, è tornato in parlamento, sono fioccati gli emendamenti. Quindi, stando così le cose, l’unica soluzione possibile nel mio comune tedesco di residenza è stata il “disconoscimento di paternità”. Per avviare la procedura sono necessari l’esame del Dna di Thomas e una dichiarazione di Marco, il mio ex marito, che disconosca il figlio. Ma Marco è disposto a firmare solo a patto di ridiscutere le condizioni del divorzio.
Da qualche tempo penso che tutta questa storia non sia un dramma, ma una candid camera magistralmente architettata. Ogni tanto controllo gli specchi per scorgere la faccia dell’operatore al di là del vetro, provo a individuare il riflesso di qualche obiettivo nascosto negli angoli di casa o sui cornicioni. A tutt’oggi - Laura è nata nel settembre 2011! - non è stato possibile registrare la nascita di mia figlia in Italia, perché la correzione del certificato di nascita potrà avvenire solo dopo la conclusione del procedimento in tribunale. E registrare il certificato con il nome del padre sbagliato ci sembra una soluzione inaccettabile. Nel frattempo nessuna autorità è in grado di rilasciare alcun tipo di documento di identità. In Germania dicono che la bambina è di nazionalità esclusivamente italiana, essendo il vero padre (tedesco!) non ancora riconosciuto come tale. In Italia dicono che la bambina non ha cittadinanza perché non è stata ancora registrata. In compenso in Germania, a pochi giorni dalla nascita, le hanno già assegnato un numero di identificazione fiscale per poter pagare le tasse. E siamo obbligate a rimanere lì, dal momento che non possiamo ottenere alcun passaporto per Laura. Non possiamo raggiungere il padre ad Abu Dhabi e nemmeno recarci in Italia: la bambina là infatti non ha assicurazione medica, non è registrata... Tutte le volte che scrivo una lettera al comune bavarese, al ministero italiano della Salute, al nostro consolato di Monaco, al Solvit (l’ente Ue che dovrebbe risolvere i conflitti tra le leggi di paesi membri), mi sento una povera orfanella che scrive a Babbo Natale una letterina per i regali o una fedele che va in chiesa a pregare. Mi ritrovo a domandare la grazia a un dio lontano, che forse esiste o forse no, e mi sembra che se i miei desideri verranno esauditi, sarà stato per una generosa concessione o, chissà, per puro
caso. Forse sarebbe ora che nell’attesa mi comprassi un bel portachiavi rosso a forma di corno.

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