giovedì 22 novembre 2012

No all'infibulazione

ll nome è brutto, anche tradotto in italiano. Violento, come la pratica di cui mi parlò una ragazza incontrata nel Mali.Si chiama Figlie del dolore. L'autrice, Waris Dirie è nata in Somalia. Dopo aver subito bambina l'infibulazione, si è ribellata. È fuggita, si è trasferita a Londra ed è diventata una celebre modella.
 
 
Oggi ha due figli ed è portavoce ufficiale di Face to Face, la campagna internazionale dell’Onu contro le mutilazioni genitali femminili . Nel libro, insieme alla giornalista Corinna Millborn, parte in un'inchiesta sulla cosiddetta mgf in diversi paesi europei.
Waris e Corinna danno voce alle donne e alla loro testimonianza, e rendono conto anche del dibattito sulla legge per la prevenzione e il divieto della mgf, approvata in Italia nel dicembre 2005.
Il libro è la denuncia di una tortura che colpisce milioni di donne, ragazze e bambine. Anche intorno a noi. Di solito succede tra la fine delle scuole elementari e l’inizio delle medie. Gli insegnanti se ne accorgono da alcuni segnali, anche se spesso non sanno come interpretarli: le bambine impiegano tanto tempo al bagno per fare la pipì, smettono di fare ginnastica, camminano in modo strano. La pratica delle mutilazioni genitali femminili, ossia l’infibulazione (asportazione del clitoride, delle piccole labbra vaginali e di parte di quelle grandi e successiva cucitura), diffusa in molti paesi dell’Africa subsahariana e in Medio Oriente, non resta confinata. Le comunità di immigrati mantengono queste usanze anche qui, come raccontano storie e filmati raccolti dagli ospedali San Paolo e San Carlo di Milano, che verranno presentati al convegno «Bimbe negate» il 9 ottobre: giornata mondiale per i diritti delle bambine indetta da Soccorso rosa e Terres des hommes.
Le figlie delle immigrate, soprattutto egiziane, quando arriva l’età «giusta» vengono ricondotte nei paesi d’origine per essere sottoposte a questi interventi, che spesso sfociano in infezioni, emorragie, danni permanenti. In Italia l’infibulazione è vietata dal 2006, ma continua a essere diffusa: le stime (non esistono dati certi) parlano di 30-35 mila donne infibulate, e di 2-3 mila bambine a rischio di esserlo. «Ciò che ci ha sconvolto» dice Nadia Muscialini, responsabile del Centro soccorso rosa del San Carlo di Milano e tra le autrici del rapporto, «è che pensavamo che le mutilazioni fossero osteggiate dalle madri delle bambine, che avevano a loro volta dovuto subirle. Invece sono le prime a spingere perché le figlie vi vengano sottoposte».
Il lavoro per gli operatori è fare capire alle donne che, in terra di migrazione, il danno fisico non è neppure compensato dalla maggiore accettazione sociale, ma è motivo di stigma ed emarginazione.

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